I VESTITI & LE STORIE-Adriana Ferrarini: Il Mondo in un Paio di Jeans

cross-continental clothescapes- lauren-loïs duah (biennale di architettura venezia 2023)

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Ho insegnato per anni in un Istituto Professionale per la Moda, noto in città come il “Ruzza”. Le mie alunne erano ragazze con il sogno di diventare “stiliste”, termine vago che alludeva ai grandi nomi della moda, le fashion star potremmo dire, e si sarebbe poi declinato nelle varie attività legate a questo mondo.

Da allora o, forse prima ancora, da mia madre, che alla macchina cucire lanciava a briglia sciolta la sua fantasia, da mia nonna, sarta fatta e finita, è nata questa mia passione per il vestire inteso come costume, modo di inventarsi e apparire ogni volta diversi, ma anche di celebrare riti e sentirsi parte di una comunità. E passione anche per la moda in quanto fucina di creatività, dove i colori e le forme, l’estro e l’eccesso dominano. Sì, certo il tubino e il less is more di chanelliana memoria sembrano indicare l’opposto, insegnano che nell’essenziale è lo stile, ma anche questa è solo una moda. Pure il nero calvinista e severo, con le sue gorgiere spumeggianti, fu un eccesso.

La moda come celebrazione dell’effimero e delle possibilità metamorfiche degli umani affascina, anche se dietro, o meglio, proprio al suo interno, questo magnifico universo dei travestimenti, nasconde piccole e grandi violenze. Un esempio: quanti bruchi devono morire perché sentiamo sulla pelle la freschezza e leggerezza della seta? D’altro canto come non ammirare l’ingegno che ha permesso di dipanare il filo di quei bozzoletti in cui orribili bruchi si  imprigionano per diventare farfalle? L’eleganza delle donne romane si misurava sui metri di seta che potevano mettersi addosso.

Forse c’è un gradiente di violenza nella vita terrena che, a meno di non diventare monaci giainisti, è inevitabile. Ma ci vuole consapevolezza, perché ciò che non sappiamo non esiste. Cinquant’anni fa Marylin Monroe o Liz Taylor indossavano pellicce opulente che ora farebbero orrore: quanti animali sacrificati inutilmente! Così forse tra qualche decennio lo spreco e le disuguaglianze generati da un consumismo esasperato risulteranno inconcepibili, frutto di una stagione malata dell’umanità, più o meno come le spericolate parrucche delle nobildonne francesi del 700.

Per questo negli anni del “Ruzza” amavo collaborare con Maria Nichele, la persona più lontana dal mondo della moda che potessi immaginare. Dimessa, vestita sempre con una camicia abbottonata fino al collo e e dei pantaloni sformati, Maria, fondatrice della ONG Incontro fra i Popoli, portava alle aspiranti stiliste uno sguardo altro che proveniva dai lunghi anni vissuti nel continente africano e parlava loro “del  ruolo fondamentale della società civile e dei singoli cittadini per promuovere un cammino di trasformazione della società globale in cui viviamo” (leggo le parole dal loro sito).

Un anno,  grazie a lei, con una splendida classe seconda realizzammo un progetto che prese il nome IL MONDO IN UN PAIO DI JEANS ( vedi la foto sottostante).Fu un viaggio appassionante attraverso 13 paesi diversi – 5 continenti – ognuno dei quali, scoprimmo, entrava in gioco nella creazione del più  comune capo d’abbigliamento: Benin, Corea del Sud, Uzbekistan, Pakistan ed Egitto per il cotone, Turchia per la pietra pomice del lavaggio, Germania per l’indaco della tintura, Italia per le operazioni di tessitura e filatura, Giappone, Namibia, Australia e Spagna per i denti della cerniere e i bottoni,  Irlanda e Ungheria per il filo da cucire, infine Tunisia per l’assemblaggio.  E questo era solo il davanti di un paio di jeans, dietro c’erano lo sfruttamento di esseri umani costretti a orari massacranti, paghe ridicole, ambienti malsani.

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Come a dire, ci portiamo il mondo addosso e non lo sappiamo. Indossiamo un atlante di storie e non ce ne rendiamo conto. A cosa serve saperlo? A immaginare cieli e mondi diversi e lontani, a immaginarne altri più equilibrati, più giusti. Ad apprezzare il lavoro che sta dietro ad ogni oggetto, anche a quelli della produzione seriale. A mostrare “come i consumatori occidentali si siano del tutto estraniati dai luoghi di produzione che permettono il loro vorace consumo”: ho letto queste parole pochi giorni fa nella didascalia dell’arazzo  realizzato da una giovane architetto/designer di origini ghanesi, Lauren-Loïs Duah. Ero alle Corderie della Biennale di Architettura. Se nel nostro lavoro a scuola avevamo rappresentato, con una specie di trittico, il lavoro che sta a monte di un paio di jeans, questo arazzo rappresenta ciò che sta a valle, cioè la grande discarica di Accra in Ghana, dove arrivano tonnellate di abiti usati.

Le etichette sono ora fettucce lunghissime con scritte in una babele di lingue che spesso tagliamo via, perché inutili e fastidiose. Penso a un mondo futuro in cui su ogni vestito potrà esserci, nella lingua che vuoi, la sua storia, i suoi viaggi. Perché i vestiti sono storie. Ogni vestito una storia.

Adriana Ferrarini

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