ISTANTANEE- Sergio Pasquandrea: Note di lettura a “Al di qua di noi” di Paolo Pistoletti

giuseppe de nittis- la traversata degli appennini

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Singolare quanto spesso i sintagmi negativi ricorrano nella poesia di Paolo Pistoletti: “nessuna pietà celeste”, “ho già l’aria di chi non c’è”, “fine pena mai”, “è l’ora / di non esserti più”, “non ricordo oramai / di quante vite” (stiamo citando solo dal testo che apre la silloge). Dipende, certo, dal fatto che molte di queste poesie affrontino il tema della mancanza e dell’assenza; ma forse ci sono motivi più profondi, come vedremo.

Il libro è diviso in quattro parti. Negli spazi rimasti è un dialogo con i luoghi – una casa, la natura invernale – che evocano il ricordo di chi non c’è ma che, in qualche modo, seguita ad esserci. La seconda sezione, Dentro il tuo gennaio, ha di nuovo per centro la casa, anzi “il corpo della casa”, spazio vivo in cui si incarnano le memorie familiari. La terza, Ovunque mi porti, ribadisce il ricordo dei cari scomparsi (il padre, il nonno) e di quelli presenti (la moglie, la figlia). Dopo due brevi interludi, il libro culmina con l’ultima sezione, Hannover, a giudizio di chi scrive la più riuscita e compatta, con la sua palpabile evocazione di un viaggio giovanile in treno dall’Umbria a una quasi mitologica Germania, densa di notazioni che lo trasformano in un percorso iniziatico (“chissà se esiste davvero / il nostro posto / ci chiedevamo come / da altre vite”).

Ma, al di là dei contenuti, in “Al di qua di noi” c’è un basso continuo stilistico, fatto di una sintassi franta, circolare, che unifica i vari componimenti e li rende parte di un intero difficile da segmentare: l’intera raccolta va letta forse più come un testo ininterrotto, che non come un insieme di poesie separate.
C’è un’eredità evidente di Mario Benedetti – del resto citato proprio in apertura – dal quale Pistoletti riprende anche il tema di una realtà precaria, sfuggente, in cui la freccia del tempo pare spesso invertirsi in maniera inaspettata, mescolando presente, passato e futuro. I dettagli icastici e precisi (il “maglione di lana grosso / colore terra bruciata”, “la nonna che ci tenebrava / la stanza”, i “tre quarti avvivati sui fianchi dalla fine / degli anni sessanta”, “la nostra / fiat 131 diesel che vibrava”) non riescono a dissipare l’impressione di un mondo labile, nel quale le cose si sottraggono alla presa dell’io che le insegue: “non ti accorgi / delle cose che sono / da loro // hai imparato / che oramai non ci sono più / senza te”. Persino “i vivi i morti spesso i mai / nati, si confondono”: e il compito del poeta è proprio indagare questo fondo prenatale, richiamare i nomi “dal fondo dell’in sé”. Da qui la frequenza delle negazioni, di cui dicevamo all’inizio, a sottolineare come lo sguardo non possa accontentarsi di ciò che vede, ma debba scavare verso un significato altro, pre- e a-temporale.
E c’è un altro nume tutelare, anch’egli esplicitato: Andrea Zanzotto, evidente nel modo in cui il paesaggio (un paesaggio spesso freddo, grigio, nel quale si riconosce il natio Appennino umbro) si fa riflesso e alter ego dell’io poetante.
“Essere” e “esserci” sono, heideggerianamente, le due sponde tra cui Pistoletti si muove: il dasein, l’esperienza del mondo fluttuante, dialoga con un nocciolo eterno, immutabile, che la poesia non smette mai di cercare.


Sergio Pasquandrea

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giuseppe de nittis- lungo l’ofanto

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Testi da Al di qua di noi di Paolo Pistoletti

[dalla terza croce]

Dal tuo ritratto
ti sei
fino all’ombra.
Come ogni albero sogna
altri alberi
dall’altra parte del mondo.

Ricordati di chi quando sarai
continuaci da dietro la terra
la paglia la pietra
la nostra casa una casa sempre più grande
in fondo agli occhi
di noi bambini dove ci nasconde la nostra
stanza di qua
come una vita immensa. Dal bianco del tuo già
ma non ancora, ricordati di chi
sta da qui
dentro questa
strana presenza, che noi
ti siamo.

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“in principio era
la vidyā. La visione della brace
che ci abitava”(pseudo veda)

Che il corpo della casa si dilatava
dentro
il grande fuoco di mio padre.
Come una pupilla primordiale
dall’occhio veda.
A quanti cerchi dall’interno
si propagava
dal suo centro acceso.
Tra camino e cantina al di qua del suo ultimo
viaggio di legna
dal fondo.
Ogni distanza pronta per il taglio
tra sé e sé. Si curava
l’immagine si abitava
la veglia ogni fiamma
fino alla cenere. Ma ogni piano andato in fumo
risaliva anche me sopra
le sue spalle
fino a quel tratto non ancora
somigliante già
che c’era quel sottile profumo di resina
un lucernario immaginato in cima
come Capo Nord.

Che poi a un certo punto io
ero uguale avevo il suo naso
e qualcosa di mia madre.
C’era aria da neve e poi c’era
acqua che avrebbe trovato la sua vena
così bene me lo sento
come un bambino che sarà inconcepibile
da credere ma c’era
terra da ritornare.

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È dalle muratti e dalle ms, è dal fumo
della mamma e del babbo, è da quello
delle nostre marlboro

Mondo, sii, e buono. Poiché
è dai cappotti che prima o poi torneranno.
È dai tre quarti avvitati sui fianchi dalla fine
degli anni sessanta. È dai capelli tagliati
come andavano allora
io lo so
come i vicini nel dormiveglia attraverso le mura
ci venivano a trovare dalle loro vite
passate

dalle scale sempre più fino dentro
ai nostri padiglioni.
A sussurrare da ogni lato della stanza
a restare sul vago a ribadire piano
poche parole senza senso
da non ripetere per nessuna cosa
al mondo come se non fosse successo
niente se non per me
o per chi sarei stato
io comunque l’indomani.

.

per te che non volevi.
Al tuo altrove

Adesso il fiume è la tua casa
la tua ora è di fango.
Un’occasione che tenevi
d’occhio da sempre.

Che dal ponte vedevi scorrere
sul riflesso dell’acqua.
La caparra in anticipo un passo
più lungo della gamba. Da bambino
col mare uno tenta

a conca con le mani. Entro poco
verso me nel tutto ti dici.
Ma poi niente, la buca non basta.
E sottosopra resti solo tu
a sporgerti, nel gorgo

come acque rotte di qua
dietro il tuo
mondo che ti rigira
al contrario. Questo è quello
che tra noi devi
aver pensato, allora
se non ci sono
altre domande, io vado.

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Poteva essere l’ultimo treno, e quello
quello in fondo all’annuncio
forse il nostro binario.
Ma c’era ancora come un altro convoglio.
Ce n’era uno dopo
davvero mai pronunciato
dal terminale.
E noi che con te già così lontano
di un inverno polare al nostro
potevamo essere quelli
eppure mai quanto te
noi mai quanto il tuo soffio
da cavallo vapore.

Come contenuti in un sogno
in cabina risalendo il continente
sul vetro come tracce confusi
attraverso campagne e città.

Tornerai a svegliarmi nella mia fortezza
dal rigore del nord? Te lo chiedo adesso poiché
di nuovo bambino poi
me ne dimenticherò. Questo è quanto
dal profondo del viaggio
devo averti domandato
dopo il rimbocco prima di dormire
coperto da quel calore
breve fino a un certo punto delle mani
lungo la linea
di lì a poco via, come la neve.

.

Ritorniamo sempre negli stessi posti
dentro
ai nostri maglioni
da una corrente
alle spalle.
Ricordi di quanti cassetti prima
che tu non parta più.
Ma se mi sposto di un niente
torno a me stesso, guarda da qui
sono già in Germania.

Umbertide Hannover distanti
una frazione di secondo
se solo ci pensi.
Appena millenni.
O da metà del viaggio – da Innsbruck
che si anima dentro il nostro
dicembre dell’ottantuno
con noi sempre più
in treno verso il nostro freddissimo
dio del nord.

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NOTA SULL’AUTORE

Paolo Pistoletti lavora nella biblioteca comunale di Umbertide. Terminati gli studi in Giurisprudenza e in Teologia ha continuato ad approfondire i contenuti di alcune correnti spirituali d’oriente e d’occidente, ampliando, allo stesso tempo, la sua ricerca poetica. In poesia ha pubblicato Legni (Ladolfi Editore, 2014) e il libro d’arte Borgo San Giovanni (Fiori di Torchio, Seregndelamemoria, 2018). Nel corso degli ultimi anni suoi contributi, sulla poesia e la parola, sono stati pubblicati da Fara Editore e dalle Edizioni CFR.
È stato condirettore della collana di scrittura, musica e immagine “La pupilla di Baudelaire” della casa editrice Le loup des steppes.

Paolo Pistoletti, Al di qua di noi -Arcipelago Itaca, 2023

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